In memoria di Amoim Aruká Juma, ultimo uomo indigena di etnia Juma, morto di Covid in Amazzonia, Brasile, febbraio 2021.
1.
erano in quindicimila centocinquant’anni fa gli indigeni Juma
del fiume Assuã, alimentavano
la rossa costellazione della pelle e delle ossa,
e così come scrive il poeta “dormivano accanto al fiume
silenzioso, il fiume dormiva con loro”.
2.
si cibavano di radici gli Aruká, e di vento
avevano un regno intero tatuato sul corpo
simili ai jaguaratica, oracoli della foresta.
La terra li ha chiamati uno dopo l’altro
a soffiare nuovi sogni nei sogni di chi resta,
le loro parole e i loro canti sono i nuovi segni rupestri,
orme fragili di un mondo
il cui cielo affonda nel fango
3.
Proviamo adesso
per una volta almeno
a capovolgere lo sguardo
immaginatevi cosa significa essere visti da chi ci ha preceduto, invece di considerarli,
loro,
l’immobile punto di partenza di quello che siamo diventati:
(i fulmini, i parassiti, gli incendi temuti dagli uomini antichi)
un buco nero nello sterno.
Proviamo dunque a immaginare il mondo visto da una prospettiva rovesciata,
come un sismografo rivolto verso l’alto
che misura le scosse delle stelle
mentre noi, in basso, rasoterra siamo passati dall’argilla
al vetro ceramica
simili a degli scriba moderni che conservano la traccia
di uccelli primitivi sugli schermi in litio:
si ritrocede come dei granchi dalla scrittura delle parole alla scrittura delle cose
4.
La memoria è un telescopio al contrario, verso l’interno,
che mette a fuoco la mia infanzia: siamo nel 1980:
attorno al tavolo in castagno una geometria di gesti
che si allungano nel sangue:
mia nonna prepara
i ampúi e i scistrói con la crama
mia mamma imbottiglia lo sciroppo di sambüi mentre la zia Ida impasta la spanpezzia
(dicono che sia la migliore della valle).
Ricordo le mie estati a Primadengo: tre donne attorno al tavolo
la quarta, fuori, nel prato non è ancora in fiore,
una saiótra tra i pom pianta
5.
La lingua è un fiume silenzioso che dorme in noi:
delle donne attorno al tavolo solo una è rimasta
e con lei, in lei scorre
il sapore della mia infanzia
le parole che non so più dire, ma ascoltare
nel suo quasi monologo con le mucche e le genziane
sono le mie radici aeree, disperse, sono questa vasta estensione di resti
6.
Esplode il sapore di un mango dalle fattezze di un cuore
duro e dolce, giallastro:
è la polpa che mastico
quando uso le parole di un altro dizionario,
e mi turba, mi angoscia il gusto che sempre resta
in bocca, questo scampolo di lingua tropicale
che stringe tutto in una morsa con le sue fibre e i filamenti tra i denti,
un suono che tinge
di giallo l’intero linguaggio,
dove è tutto un frutteto che s’incastra tra i versi
7.
Ho visto l’ultimo uomo Juma volare, era l’uomo insetto
che si è fatto tronco lichene foglia luce che precipita
8.
Proviamo infine a rovesciare le parole toglierle da strati di cose inutili
per dire ciò che conta
tra un inciampo e l’altro
o invocare un’altra finzione più sobria, forse, e chiara
-questi pochi versi, il mio sismogramma
9.
Quando muore un uomo
l’ultimo uomo di un intero popolo è un uomo-alveare che sciama
galassia amazzonica
che si fa radura, babele di voci taciute, rase al suolo
come tronchi falciati
crateri lunari aperti nel verde.
Quando muore un uomo
l’ultimo sciamano dell’etnia Juma
dorme in me la donna dell’alta Leventina che parla alle mucche e conosce il sapore del sambuco silvestre:
mentre muore un uomo
l’ultimo uomo dell’etnia Juma è una lenta discesa
della specie verso il vuoto.